Il Baglioni Romanista
Nella stanza soleggiata dove ci riceve, c’è un pianoforte a coda, un impianto stereo e ben otto chitarre. Tutte ordinatamente riposte nella loro custodia. Qualche appunto sparso qua e là, i versi di una canzone, la cassetta di un provino dentro la quale sono riposte poche note e tante speranze di un giovane sconosciuto, a cui DIO solo sa cosa riserverà la vita. Tutto li intorno sa di musica. Baglioni ci saluta con affetto, e con la cortesia che è prerogativa della sua persona, si rende subito disponibile per l’intervista richiesta che, per i toni e per i contenuti che l’hanno caratterizzata, ci è sembrata essere piuttosto un’amichevole conversazione.
di Alberto Mandolesi
DALLA RIVISTA “LA ROMA” – N.144 DICEMBRE 1996
Trascrizione di Sabrina Panfili, in esclusiva, per doremifasol.org e saltasullavita.com
D. Quando è nata la tua simpatia per la Roma?
R. Probabilmente è dipeso da un motivo generazionale, per quello spirito di contraddizione che porta i giovani ad affermare il contrario di quello che fanno i genitori. Devi sapere che mio padre è laziale, ma fu proprio lui a portarmi allo stadio per la prima volta, a vedere la Roma.
D. Qual è il periodo in cui sei stato più vicino alla squadra?
R. Direi tutti gli anni settanta e la prima parte degli anni ottanta, durante i quali ho conosciuto molti giocatori. Poi ci sono state fasi alterne, con momenti di allontanamento ed altri di riavvicinamento. Tuttavia ancora oggi sono un romanista che, pur non frequentando ogni domenica lo stadio, segue comunque tutte le vicende.
D. A cosa è dovuto questo momentaneo allontanamento dal calcio?
R. Alla tragedia dell’Heysel (1985, finale Juventus-Liverpool di Coppa Campioni n.d.r.). Una gara disputata malgrado il decesso di 39 tifosi, mi diede l’impressione che ci fosse un esercizio pazzo del potere calcistico. Il fatto di non poter fermare in nessun modo l’evento, mi indusse a pensare che stavamo veramente andando tutti verso Rollerball. Io considero il calcio come un momento bello durante il quale ci si può abbracciare anche con uno sconosciuto che ti sta accanto, ma se questo deve servire da paravento ad una massificazione verso la follia generale, allora bisogna prenderne le distanze. Credo che adesso le cose siano migliorate anche grazie ad alcune trasmissioni ed alcune persone come te che, per fortuna, cercano un alleggerimento senza il quale arriveremmo a creare un popolo di soldati.
D. Quale pensi sia più impegnativo: il mestiere del cantante o quello del calciatore?
R. Credo sia più difficile il mestiere del calciatore che fin da giovanissimo è costretto a vivere sotto una campana di vetro, e molto spesso viene avvicinato da persone non giuste. I grossi talenti trovano spesso dei vampiri che cercano di succhiare sangue dovunque. Inoltre,quella del calciatore, è una carriera breve. L’artista invece può durare nel tempo, anzi, se sa rinnovarsi, diventa sempre più attendibile col passare degli anni.
D. Quali sono, secondo te, gli eventuali punti di contatto tra lo “spettacolo sport” e lo “spettacolo musica”?
R. La popolarità, se sei a certi livelli, e la possibilità di suscitare grandi entusiasmi: la moltitudine che trovi in uno stadio, spesso la trovi nei concerti del pop star. Ci sono molti punti di contatto, come quello della gestualità. Non a caso adesso vedo i calciatori che, dopo un gol, ripetono un rito come fossero sulla scena. Rituali che potevano avere Mike Jagger con i Rolling Stones, o Elton John.
D. Quali sport ti piace praticare, e quali sport segui da spettatore?
R. Ho praticato il nuoto quasi a livello agonistico. Sono un discreto nuotatore, pensa che questa estate mi sono fatto 8 chilometri in due settimane. Ho fatto pallavolo a scuola, e poi, come tutti, ho giocato a pallone. Ero centromediano metodista, soltanto che avevo molto metodo e… poco talento. Ricordo che ancora non esistevano le lenti a contatto, ed io, dopo aver rotto per due volte i miei occhiali, fui costretto da mio padre a smettere. Come spettatore, invece, mi piace tutto ciò in cui c’è agonismo. Il calcio, il basket, ma soprattutto la pallavolo.
D. C’è qualcosa che invidi al mondo dello sport?
R. Il fatto che, nella maggior parte delle discipline, gli sportivi, una volta firmato l’ingaggio, indipendentemente dal rendimento, hanno il privilegio economico di una cifra garantita. E poi, per gli sport di squadra, la passione che accompagna le loro gesta. Anche se questo sentimento è proiettato verso la maglia che indossano e quello che rappresentano.
D. Cosa pensi delle dimissioni di Sacchi da C.T. della Nazionale?
R. Io sono un “sacchiano”, ho avuto modo di conoscerlo personalmente, e mi è anche molto simpatico. Trovo che, specialmente col Milan, sia stato un buon direttore d’orchestra, e che abbia creato delle ottime sinfonie. A me non è che piaccia molto il Milan, anzi spesso guardo ai rossoneri come a quelli che hanno il potere economico, e questo mi da un pò fastidio. Però credo si divertissero tutti nel veder giocare quella squadra. Considero Sacchi più bravo come allenatore di club, che come selezionatore della nazionale. In fondo, con la decisione di tornare a Milano, ha tolto le castagne dal fuoco a molte persone, compreso se stesso.
D. In base a cosa è dipesa la scelta dei brani di “Attori e Spettatori”, al successo che hanno avuto o ai gusti personali?
R. Ci sono alcune canzoni che, secondo me, sono riuscite ad avere il passaporto del tempo, altre, invece, non ce la fanno. Sembrano vecchie foto in cui non ti riconosci più. Poi, terminata la scelta, c’è sempre il dubbio, come quando si parte per un viaggio, di aver messo tutto l’occorrente nella tua valigia.
D. Pensi che il pubblico, attraverso le tue canzoni, si sia fatta un’idea giusta di quello che realmente sei?
R. Penso proprio di sì. Specialmente negli ultimi anni ho avuto una riprova di grossa attenzione, anche riguardo le critiche negative, e questo significa essere compresi, magari non condivisi, però sicuramente compresi.
D. Qual è il tuo rapporto con la gente?
R. C’è un rapporto sufficentemente normale. Normalissimo no, perché la condizione della popolarità porta un pò a snaturare le cose. Non sempre, purtroppo, si può avere il sorriso giusto con la gente. Può accadere che si vada di fretta, che si abbiano dei problemi personali, ma è difficile spiegarlo a chi ti incontra una sola volta e per un solo minuto.
D. Il tuo “Alé, oh oh” è diventato involontariamente un inno universale dei tifosi: hai mai pensato di scriverne uno appositamente?
R. Ho scritto l’inno dei mondiali di nuoto: “Acqua nell’acqua” si prestava particolarmente. Scrivendo un inno però, rischi di andare sul banale, perché devi ricorrere a concetti universali ma facili, che vadano bene per tutti. Invece quello che è accaduto con “Alé, oh oh” è curioso. Questo canto è stato creato dalla tifoseria romanista. Lo sentii per la prima volta durante un concerto al Palaeur, e fu bellissimo. Pensai a due mondi, quello dello sport e quello della musica, che cominciavano ad incontrarsi. Ormai è diventato anche un modo per chiamare i bis, anche nei confronti degli artisti stranieri. Pensa che Peter Gabriel una volta mi chiese cosa significasse e che Joni Mitchel voleva farci un brano.
D. Questa grande notorietà ti ha tolto qualcosa?
R. Sì, purtroppo. Si finisce inevitabilmente col togliere tempo alle persone che ti sono più care. C’è una frase nel diario di Cesare Pavese che mi ha sempre colpito, diceva:”E’ inutile che ti ostini a cercare un’anima gemella, quando non trovi altro che pubblico”.
D. Ti senti appagato da quanto hai avuto finora, o c’è qualcosa che vorresti fare o avere?
R. Io mi sento superfortunato, anche se qualcosa di buono l’ho fatto. Non ho mai lesinato sforzi durante il lavoro. Mi sento un privilegiato, ma il privilegio vero è quello di svolgere tuttora un mestiere che è veramente il mio mestiere, un mestiere da cui ho imparato tantissimo. Da ragazzo, ad esempio, ero un introverso, parlavo con la gente ad occhi bassi. Adesso non lo faccio più.
D. Martedì 17 dicembre ti esibirai gratuitamente di fronte a centomila persone per un’iniziativa benefica: il Derby del Cuore. C’è un messaggio che vorrai lasciare ai presenti?
R. Sarà la terza esibizione all’Olimpico, uno stadio che ogni volta mi mette i brividi. E’ sempre bene impegnarsi in queste iniziative, proprio in un momento di disorientamento come questo perché anche se fosse una goccia in mezzo all’oceano, sarebbe comunque una goccia in più. Non ci sarà bisogno di lasciare un messaggio alla gente che interverrà, perché il fatto stesso di essere presenti dimostrerà che hanno capito il motivo della partecipazione.